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Perché la Borsa italiana è un Mercato di periferia

di Matteo Cadei

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Quante volte ci hai sentiti parlare all’interno del nostro gruppo Facebook Wikilix dell’importanza della diversificazione quando investi? Centinaia, probabilmente. E non è un caso: se pensi di investire unicamente nella Borsa italiana, non solo stai mettendo in serio pericolo la tua prosperità finanziaria, ma stai anche rinunciando all’opportunità di investire nel 99% del resto del mondo. Perché il peso del nostro mercato azionario è quasi irrilevante rispetto a quello delle altre borse mondiali. In questo articolo ti spiego che cosa si nasconde dietro questo grave problema.

Goccia nell'oceano

Una goccia nell’oceano

1%.

Questo è il peso della Borsa italiana nel mondo, la cui capitalizzazione complessiva è pari a 634 miliardi di euro (dati Borsa Italiana).

Il solo FTSE MIB, che è il paniere che contiene le 40 aziende italiane più grandi, presenta una capitalizzazione pari a 517 miliardi di euro.

Alla fine del 2019, in Italia, il rapporto tra la capitalizzazione complessiva del mercato borsistico e il PIL era pari al 36%, a fronte del 54% della Germania e oltre il 100% della Francia e del Regno Unito.

Non è dunque un’esagerazione definire la nostra Borsa come un Mercato di periferia.

Un Mercato secondario che non riesce a crescere, nonostante la presenza di aziende che nel mondo possono solo sognare di avere (come per esempio le aziende presenti nel segmento STAR).

E allora perché la capitalizzazione della nostra Borsa è così irrilevante rispetto al rispetto del mondo?

Vediamo di approfondire insieme qualche possibile causa.

Palazzo Chigi

L’Italia è una nazione con un Capitalismo di Stato?

Abbiamo detto che la capitalizzazione della Borsa italiana è pari a 634 miliardi di euro.

Sai qual è la quota di questa capitalizzazione detenuta dallo Stato?

Il 30,45%.

Una quota enorme, che rende lo Stato, da ormai diversi decenni, un attore sempre più centrale nell’economia italiana.

E questo non è un bene.

Perché lo Stato dovrebbe fare lo Stato e lasciare agli imprenditori il compito di produrre, innovare e far crescere il Paese.

L’Italia è dunque una nazione con un Capitalismo di Stato?

Per Capitalismo di Stato si intende un sistema economico in cui lo Stato diventa azionista o imprenditore e gestisce, direttamente o indirettamente, le aziende private o pubbliche.

Ti riporto un commento, tratto dall’articolo “Stato imprenditore?” dell’Istituto Bruno Leoni, che rende bene l’idea della peculiare situazione italiana:

“In tutta Europa i governi soccorrono le imprese in difficoltà, attraverso una molteplicità di strumenti.

La Commissione Ue ha adottato un apposito schema, il cosiddetto “temporary framework”, per disciplinare questi interventi. La differenza rispetto a quello che accade nel nostro Paese sta tutta in una parola: “temporary”, temporaneo.

Quando Barack Obama, nel 2009, decise la nazionalizzazione di Chrysler per scongiurarne il fallimento, disse che non intendeva entrare nel business delle automobili: tutti (o quasi) si fidarono, e lui mantenne la parola. Il Tesoro uscì definitivamente nel 2011, una volta scongiurato il fallimento dell’azienda di Detroit.

Quando Angela Merkel spiega che gli investimenti in Lufthansa sono transitori, nessuno si sogna di metterlo in dubbio.

Se invece Giuseppe Conte formulasse parole analoghe, nessuno lo prenderebbe sul serio. Da anni l’Italia annuncia la vendita del Monte dei Paschi, eppure nulla cambia: anzi, nel frattempo anche la Popolare di Bari è stata salvata a spese dei contribuenti.”

Una scarsa cultura di impresa

Se lo sviluppo della Borsa italiana è sicuramente limitata da una mentalità assistenzialista derivante da un Stato onnipresente, possiamo dimostrare come esso sia anche osteggiato da una scarsa cultura d’impresa.

Vediamo insieme qualche dato, tratto dal report “L’impatto della crisi da Covid-19 sull’accesso al mercato dei capitali delle PMI italiane”, curato da ricercatori della Banca d’Italia.

Il report, esaminando le caratteristiche di 88 imprese italiane ammesse, tra il 2013 e il 2019,  al mercato AIM Italia, un segmento di mercato dedicato a imprese di più piccole dimensioni ad alto potenziale di crescita, ma anche con meno controlli rispetto agli altri segmenti, individua le caratteristiche di un’impresa non finanziaria di piccole e medie dimensioni (PMI) che decide di quotarsi in Borsa.

Questo profilo viene poi utilizzato per stimare il numero di PMI potenzialmente più qualificate alla quotazione.

I risultati mostrano la presenza di quasi 2.800 PMI non finanziarie con caratteristiche ampiamente idonee alla quotazione, prima della diffusione della pandemia.

Grafico imprese quotabili pre-crisi per classe di fatturato
Grafico imprese quotabili pre-crisi per area geografica

Lo stesso tipo di stima viene poi elaborata per il 2021.

Sebbene gli effetti della crisi sanitaria riducano tale bacino del 20 o del 25%, a seconda dello scenario di riferimento, il numero delle imprese quotabili rimarrebbe molto elevato anche all’inizio del 2021.

Covid o meno, in Italia il numero di PMI quotate in Borsa risulta modesto, sia rispetto al totale delle imprese, sia rispetto al numero delle imprese quotate delle altre principali economie.

Tra il 2009 e il 2019 sul mercato italiano si sono quotate 237 nuove imprese, di cui oltre tre quarti sul listino AIM Italia.

Questi dati ci portano a qualche ragionamento.

Le imprese italiane, in particolare quelle di minori dimensioni, per crescere, ricorrono ancora in via prevalente al finanziamento bancario piuttosto che alla raccolta di capitale di rischio.

Questo ha contribuito negli anni al sottodimensionamento del mercato borsistico italiano rispetto alle altre economie avanzate.

Basti pensare che alla fine del 2018 le PMI non finanziarie quotate in Italia erano 104, rispetto alle 471 nel Regno Unito, alle 318 in Francia e alle 200 in Germania.

Ma andiamo avanti con i dati.

Nell’ultimo decennio, allo scopo di rendere più flessibile e meno oneroso lo status di società quotata per le imprese di minori dimensioni, sono state intraprese una serie di iniziative che hanno dato impulso alla quotazione delle PMI.

Tra queste iniziative troviamo l’avvio, nel 2009, del mercato AIM Italia, che da allora fino alla fine del 2019 ha accolto 182 imprese.

Il numero di ammissioni è cresciuto nel tempo, fino a raggiungere nel 2019 il “picco” di 35 nuove imprese.

Tuttavia, se rapportiamo questo numero con gli USA, non ne esce un quadro così lusinghiero.

Secondo il Wall Street Journal, le aziende americane hanno raccolto solo nel 2020 167,2 miliardi di dollari attraverso 454 IPO.

Solo una tra le principali IPO di quest’anno, Airbnb, avvenuta il 10 dicembre, è grande quasi quanto il valore totale della raccolta da IPO sull’AIM nel periodo considerato.

Dimensione dell’IPO Airbnb: 3,51 miliardi.

Valore totale IPO AIM; 3,9 miliardi.

Azienda

L’unico vero motore di ricchezza (e come sfruttarlo a proprio vantaggio)

Ma da dove nasce questa ritrosia da parte delle aziende italiane alla quotazione in Borsa?

Da una parte può trarre origine dalla stessa natura delle nostre PMI: aziende prevalentemente a gestione familiare che hanno paura di perdere il controllo della loro azienda.

Dall’altra, vi è la falsa credenza che la Borsa sia una bisca clandestina. 

Un covo di avidi speculatori che guadagnano sulle disgrazie altrui.

La verità è che la Borsa non ha nulla a che vedere con il gioco d’azzardo.

Tant’è che tutti gli imprenditori più ricchi del mondo sono anche investitori.

Jeff Bezos, Bill Gates, Warren Buffett.

Perché queste persone hanno compreso molto bene che l’unico vero motore di ricchezza al mondo sono le aziende.

E l’unico modo per mettere i propri soldi all’interno di questo motore è il mercato azionario.

Investire in Borsa significa investire in azioni.

Investire in azioni significa investire in aziende.

Investire in aziende significa investire nell’economia reale.

Investire nell’economia reale significa investire nel progresso.

E se anche tu vuoi investire nel progresso tramite azioni ad altissimo potenziale di guadagno, allora la membership Lixi Tradix è il club di investitori che fa per te.

di Matteo Cadei

Financial Analyst di Lixi Invest

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